Con ordinanza del 4 maggio 2018, n. 8274 e successiva sentenza del 10 luglio 2019, n. 1181 (rese nell’ambito di un giudizio di impugnativa del licenziamento con rito Fornero), il Tribunale di Torino, Sezione Lavoro, è intervenuto sul tema del divieto di licenziamento per causa di matrimonio prescritto dall’art. 35, D. Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle parti opportunità), affermando l’applicazione del suddetto divieto anche in favore della donna lavoratrice unita civilmente con altra donna (madre di una minore).

Tale applicazione è stata operata in forza dell’art. 1, comma 20, L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), secondo cui:
“Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”.

Ma l’aspetto innovativo delle pronunce torinesi è rappresentato dall’interpretazione che il Tribunale ha dato alla norma che dispone il divieto di licenziamento per matrimonio (e oggi anche per le unioni civili), individuandone la ratio, non tanto nella tutela della lavoratrice donna in quanto futura madre, ma nel concetto più ampio di protezione della comunità familiare.

L’ordinanza resa nella fase sommaria ha ritenuto infondate le difese datoriali, secondo cui la ratio del divieto di licenziamento riposerebbe nella necessità di tutelare la lavoratrice in quanto possibile futura madre, e quindi la maternità, motivo per cui la ricorrente non avrebbe potuto accedere a detta tutela, non essendo madre.
Il Giudice ha ritenuto, infatti, che – contrariamente a quanto sostenuto dal datore di lavoro – la norma non fa alcun cenno alla maternità, ma trova il suo unico presupposto per l’applicazione del divieto di licenziamento nella mancata decorrenza dell’anno dalla celebrazione (del matrimonio o) dell’unione civile.

Il Tribunale di Torino ha evidenziato altresì come la tutela della comunità familiare e la libertà dei suoi componenti di sesso femminile a realizzare il proprio progetto di vita in comune, senza il timore di ritorsioni a causa del matrimonio, siano oltretutto garantite anche dall’art. 8 CEDU, cui le decisioni dei giudizi nazionali devono orientarsi.

Inoltre, appare opportuno evidenziare che, a sostegno del ragionamento del Tribunale di Torino, depongono anche altre pronunce di merito che progressivamente, a dispetto del più rigido orientamento di legittimità, hanno esteso la tutela del divieto di licenziamento per matrimonio ex art. 35 del Codice delle Pari Opportunità anche in favore del lavoratore maschio.

Infatti, il Tribunale di Milano ha affermato in due occasioni che anche in forza di un’interpretazione della norma di cui all’art. 35 Codice delle Pari Opportunità conforme alla normativa comunitaria sulla parità di trattamento fra uomo e donna, deve ritenersi nullo il licenziamento per causa di matrimonio intimato al lavoratore, dovendosi superare il dato letterale nella parte in cui la tutela si riferisce solo alle lavoratrici (Trib. Milano, Sez. lavoro, 5 settembre 2016, in Lavoro nella Giur., 2017, 1, 100; Trib. Milano ord., 3 giugno 2014, in Foro It., 2014, 10, 1, 2975).

Dello stesso avviso è stato anche il Tribunale di Vicenza, che recependo l’orientamento del giudice meneghino, ha affermato che la norma ex art. 35 D. Lgs. n. 198/2006 deve essere interpretata nel senso di ritenerla applicabile anche ai lavoratori di sesso maschile sulla scorta di un approccio ermeneutico della ratio della norma de qua che, emancipandosi dal mero dato letterale, sia ossequioso del diritto dell’Unione Europea (Trib. Vicenza, 24 maggio 2016, in Argomenti Dir. Lav., 2017, 1, 269).

Infine, anche il Tribunale di Napoli ha ritenuto che la norma di cui all’art. 35 cit. debba essere interpretata nel senso di ritenerla applicabile sia alle lavoratrici sia ai lavoratori, posto che la ratio della previsione è quella di arginare non solo prassi discriminatorie “di genere”, ma ogni discriminazione connessa alla scelta, tanto della lavoratrice quanto del lavoratore, di sposarsi e formare una famiglia, con i diritti (e i doveri) che ne discendono (Trib. Napoli, Sez. V, 15 dicembre 2016, in Giur. It., 2017, 7, 1654).

 

 

Fonte: Prof. Giuseppe Vertucci, ilcaso.it, 27.3.21.

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