Durante il periodo della pandemia si è registrato un notevole aumento dell’uso del lavoro agile (meglio conosciuto come smart working), sia per i dipendenti della pubblica amministrazione che per i lavoratori subordinati del settore privato.

Tale innovativa modalità di lavoro era stata introdotta nell’ordinamento italiano dal D.Lgv 81/2017 (Jobs Act) che all’art. 18 definisce il lavoro agile come:
“modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Il successivo art. 19 del Jobs Act prevede che la disciplina sulle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa in smart workig debba essere stabilita in un accordo tra le parti avente forma scritta.

Detto accordo deve individuare le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, gli strumenti utilizzati dal lavoratore, nonché i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro.

Su tale ultimo aspetto, proprio a causa del frequente ricorso al lavoro agile dovuto alla pandemia, si era espresso anche il Garante della Privacy affermando la necessità di garantire meglio “anche quel diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale”.

Dello stesso avviso è stato anche il Parlamento Europeo che con la Risoluzione del 21 gennaio 2021 ha chiesto alla Commissione Europea di di elaborare una normativa che riconosca il diritto alla disconnessione, in quanto “diritto fondamentale”, e che stabilisca degli standard e misure di base da rispettare per il lavoro da remoto.

Proprio in quest’ottica, il legislatore italiano, con la Legge 6 maggio 2021, n. 61, di conversione del decreto legge 13 marzo 2021, n. 30 (recante misure urgenti per fronteggiare la diffusione del COVID-19 e interventi di sostegno per lavoratori con figli minori in didattica a distanza o in quarantena), ha aggiunto all’ art. 2 il comma 1-ter, che così recita:
“Ferma restando, per il pubblico impiego, la disciplina degli istituti del lavoro agile stabilita dai contratti collettivi nazionali, è riconosciuto al lavoratore che svolge l’attività in modalità agile il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto egli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati. L’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario
per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi”.

Ebbene, tale previsione normativa costituisce sicuramente un grande passo in avanti rispetto alla precedente legge istitutiva dello smart working perché ora il lavoratore potrà invocare un vero e proprio diritto alla disconnessione, sancito dalla legge e non più delegato all’eventuale disciplina dell’accordo contrattuale. Inoltre, l’esercizio del diritto alla disconnessione non potrà avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sulla retribuzione.

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