È illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall’azione di mobbing che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 22538/2013, affermando che in casi del genere il licenziamento non può scattare nemmeno se l’assenza del lavoratore supera il periodo di comporto.
Sulla base di questo principio la suprema Corte ha respinto il ricorso con il quale la società – proprietaria di un supermercato – chiedeva il licenziamento del lavoratore, addetto al reparto macelleria, sostenendo che le continue assenze del dipendente giustificavano la perdita del posto.
Ma la Cassazione ha confermato, come già stabilito dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d’appello del 2010, che erano “imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia” del dipendente e di conseguenza i giorni di assenza erano irrilevanti “ai fini del calcolo del periodo di comporto”.
Il lavoratore, addetto al reparto macelleria, aveva iniziato a ricevere dal luglio 2002 “una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione”. Durante i periodi di malattia dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003 “era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo”. Ulteriori e numerose visite fiscali aveva ricevuto dopo il marzo 2003 dopo “l’ennesimo rimprovero” da parte di un superiore che gli aveva provocato una “crisi psicologica”.
Nel luglio 2003 fu licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di merito in seguito a perizia medica accertarono che le assenze per malattia erano “conseguenza dell’ambiente lavorativo e della condotta aziendale” posta in essere ai danni del dipendente “in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime”. La società oltre a reintegrare il dipendente è stata condannata nei diversi gradi di giudizio anche a risarcirgli i danni per l’ingiusto licenziamento.
Fonte: Guida al Diritto 2.10.13
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2 commenti
Armando Luigi Bellavia
21/10/2013
Sono un ex dipendente di Poste Italiane che per il solo fatto di aver seguito il coniuge malato di CANCRO sino al suo epilogo il 03/04/2009,il 19/06/2012 l’azienda mi ha fatto pervenire la lettera di licenziamento per superamento del comporto in funzione di un esaurimento nervoso con depressione e attacchi di panico dovuti all’evento precedentemente descritto e che ancora mi trascino dietro. Sono rimasto quindi senza nessuna retribuzione e nemmeno pensione ma vivo solamente con €.342,66 che INPDAP mi versa tutti i mesi a titolo di reversibilità indiretta da parte del de cuius. Sono stato accusato ingiustamente di essermi appropriato di denaro visto che lavoravo come sportellista in un Ufficio Postale ma dopo esserci stato un giudizio penale curato dal Dott. Tabocchini Francesco e dopo essermi sottoposto a perizia medico legale sono stato assolto con formula piena perché il fatto non costituisce reato come stabilito dal GUP. Tutti gli atti li ha il suo collega. Chiaramente mi è stato volontariamente procurato un danno del quale chiedo il Risarcimento possibilmente in tempi brevi visto che con €342,66 non si vive ma si ” sopravvive ” forse.
Avvocato Fabio Cioffi
21/10/2013
Gentile signore,
innanzi tutto esprimo tutta la mia umana comprensione per la “difficilissima” situazione in cui si è trovato, ma ciò tuttavia non risolve il Suo problema.
Con riferimento al licenziamento per superamento del comporto, non mi pare che la Sua malattia sia attribuibile al mobbing inflitto dall’azienda, perché Lei ha detto di essersi ammalato a causa della dolorosa perdita di sua moglie.
Pertanto, non essendoci responsabilità dell’azienda sulla causa della sua malattia, il licenziamento per superamento del comporto (anche se umanamente ingiusto) è legittimo.
Inoltre, quand’anche si volesse ipotizzare un qualche profilo di responsabilità, sono ormai ampiamente decorsi i termini (60 giorni) per impugnare il suddetto licenziamento del 19.6.12.
E neppure può ipotizzarsi una responsabilità dell’azienda per le sofferenze a cui è dovuto andare incontro per affrontare il processo penale in cui è stato assolto.
In tali casi, l’unica forma di risarcimento (da chiedere allo Stato) si ha solo nel caso di ingiusta detenzione seguita dall’assoluzione.
Ma non mi pare che sia il suo caso.