Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 585 del 14 Gennaio 2014, hanno finalmente risolto un vecchio contrasto giurisprudenziale sull’attribuzione o meno dell’indennizzo ex Legge Pinto per l’eccessiva durata del processo anche alla parte rimasta contumace in giudizio.

Questa volta gli ermellini hanno aderito alla tesi più garantista che riconosce l’indennizzo anche in favore della parte contumace. Secondo le Sezioni Unite, infatti, sia nelle disposizioni internazionali (art. 6 Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) che in quelle nazionali (art. 2 L 89/2001) non esiste alcuna esclusione del diritto all’indennizzo alla parte che ha scelto di restare contumace. La tutela, infatti, è rivolta alla persona in relazione ad un danno derivante da una causa che la riguarda.

La tutela è dunque prestata indistintamente a tutti coloro che sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale, tra i quali non può non essere annoverata anche la parte non costituita in giudizio, nei cui confronti la decisione è comunque destinata ad esplicare i suoi effetti. Risulta pertanto arbitrario escludere il contumace dalla garanzia della “ragionevole durata” che l’art. 111 Cost. inserisce tra quelle del “giusto processo”. Nella tradizione giuridica italiana peraltro la contumacia è sempre stata considerata come un atteggiamento pienamente legittimo, non preclusivo della qualità di parte, ma ragione anzi di talune specifiche tutele.

Le Sezioni Unite hanno chiarito che anche la contumacia può in ipotesi influire – positivamente o negativamente – sui tempi del giudizio rispettivamente implicando o escludendo, a seconda dei casi, taluni adempimenti processuali. Pertanto, anch’essa consiste in un “comportamento della parte” valutabile ai sensi dell’art. 2, comma 2, L 89/2001 ai fini dell’accertamento della violazione del principio della ragionevole durata.

Parimenti non condivisibile è l’assunto della presunta incompatibilità dell’equo indennizzo con la contumacia, ciò perchè contrariamente a quanto sostenuto dall’avverso (e superato) orientamento giurisprudenziale, la mancata costituzione in giudizio non può essere sempre considerata come indice di disinteresse nei confronti della causa che escluderebbe a priori quel patema d’animo subito dalla parte per l’eccessiva attesa dell’esito del giudizio medesimo. A volte, infatti, la contumacia è una precisa scelta processuale che può essere basata anche sulla convinzione della totale infondatezza della tesi avversaria che può far apparire inutile affrontare le spese legali occorrenti per contrastarla, costituendosi in giudizio.  Altre volte, la parte può scegliere di non costituirsi in giudizio per effetto di una precisa strategia: ad esempio per non sanare eventuali vizi di nullità delle avverse difese.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che l’esito della causa è ininfluente ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex Legge Pinto, che spetta anche alla parte soccombente.

Inoltre, la durata superiore ai limiti di ragionevolezza del processo fa presumere una causazione di un danno non patrimoniale, di per sé derivante dall’attesa, prolungata per un tempo esorbitante, di una decisione che comunque incide sulla parte nei cui confronti viene assunta. Non vi è quindi alcun motivo per negare che anche il contumace possa subire quel disagio psicologico, che normalmente risentono le parti a causa del ritardo eccessivo con cui viene definito il processo che li riguarda.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha concluso ritenendo che la mancata costituzione in giudizio può eventualmente incidere sull’an o sul quantum dell’equa riparazione, ma non può costituire di per sé motivo per escludere automaticamente il relativo diritto.

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