La legge riserva, a favore di determinati soggetti, “una quota di eredità o altri diritti nella successione” (art. 536 c.c.).

Si tratta dei c.d. legittimari, elencati dal legislatore (a seguito della totale equiparazione dei figli legittimi e naturali e dell’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 537 c.c. ove si riconosceva a favore dei figli legittimi il diritto di commutazione) in tre categorie: “il coniuge, i figli (e i loro discendenti, in mancanza dei figli) e gli ascendenti”, dovendosi fare avvertenza che le recenti modifiche introdotte dalla Legge 76/2016 hanno profondamente inciso sui profili successori, riconoscendo alle “parti dell’unione civile” i medesimi diritti di legittima riconosciuti al coniuge, con applicazione diretta, tra gli altri, degli artt. da 536 a 564 del codice civile. Pertanto, va ora ricompresa tra i legittimari anche la parte dell’unione civile, dovendosi intendere come riferito anche a quest’ultima ogni riferimento contenuto al coniuge nelle predette norme.

Il principio dell’intangibilità della legittima, nel nostro ordinamento, deve essere inteso in senso “quantitativo” e non “qualitativo”, essendo concesso al testatore di autonomamente determinare gli specifici beni da assegnare ad un legittimario, dovendo egli solo rispettare la quota in valore astrattamente riservata al legittimario stesso.

Qualora il de cuius abbia disposto delle proprie sostanze a titolo gratuito (sia attraverso negozi liberali di natura donativa, sia mediante disposizioni testamentarie), venendo a ledere i diritti riservati ad uno o più dei legittimari, costui o costoro possono agire giudizialmente per la tutela dei propri diritti.

Il codice civile riserva una intera sezione a protezione dei diritti di riserva, rubricandola “della reintegrazione della quota riservata ai legittimari”. Deve sottolinearsi come, sebbene le norme di tale sezione (artt. 553 ss.) sembrino riferirsi ad una generica azione di riduzione, in realtà vengano disciplinate tre distinte azioni: di riduzione in senso stretto; di restituzione nei confronti dei beneficiari delle disposizioni ridotte e di restituzione contro i terzi acquirenti.

Si tratta di azioni autonome, delle quali la prima mira a far dichiarare l’inefficacia delle disposizioni eccedenti la quota di cui il de cuius poteva disporre, mentre le azioni di restituzione hanno lo scopo di far rientrare nel patrimonio ereditario i beni oggetto delle disposizioni lesive e sono successive all’azione di riduzione (solo dopo che la disposizione lesiva sia stata dichiarata inefficace potrà, evidentemente, essere chiesta la restituzione di beni).

Oltre alla via giudiziale, il legittimario può addivenire ad un accordo negoziale con i beneficiari delle disposizioni lesive, al fine di vedere ripristinati i propri diritti. Si tratta di accordi non tipizzati dal legislatore e, pertanto, è rimessa alla autonomia privata l’individuazione del concreto assetto negoziale attraverso il quale raggiungere il risultato voluto.

Innanzitutto, una delle opzioni praticabili è quella di stipulare un negozio avente natura transattiva ex artt. 1965 ss., attraverso il quale le parti, mediante reciproche concessioni, decidono di porre fine ad una lite tra loro insorta o prevengono una lite che potrebbe insorgere. In tal caso, la tassazione dell’accordo seguirà le ordinarie regole in tema di imposta di registro e dipenderà, altresì, dai concreti effetti (anche eventualmente traslativi) voluti dalle parti.

Sebbene non codificata in alcuna norma di diritto civile sostanziale, è, altresì, riconosciuta la possibilità di stipulare un c.d. accordo di reintegrazione della legittima, tramite il quale il beneficiario di una disposizione testamentaria lesiva riconosce a favore del legittimario leso i diritti a costui riservati dalla legge. L’ammissibilità di tale figura, già ammessa in dottrina non rilevandosi alcun divieto di legge, viene riconosciuta dal legislatore, sebbene in una norma tributaria. L’art 43 del D. Lgs. 31/10/1990 n. 346 sottrae tali negozi dall’ambito di applicazione dell’ordinaria imposta di registro, per assoggettarli all’imposta di successione, testualmente affermando che “nelle successioni testamentarie l’imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente, nonché agli eventuali accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari, risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, salvo il disposto, in caso di accoglimento dell’impugnazione o di accordi sopravvenuti, dell’art. 28, comma 6, o dell’art. 42, comma 1, lettera e)”.

Con tali accordi, i soggetti interessati riconoscono l’inefficacia delle disposizioni testamentarie lesive dei diritti dei legittimari, senza che si debba riconoscere la nullità o invalidità di alcuna disposizione, né la rescissione o la risoluzione della stessa.

Tali accordi, secondo autorevole dottrina, non hanno natura traslativa, né di transazione o novazione, dovendosi qualificare come negozi di mero accertamento, aventi gli stessi effetti che deriverebbero da una sentenza pronunciata a seguito del vittorioso esperimento dell’azione di riduzione.

Così come la sentenza che dovesse riconoscere l’esistenza di una lesione, detti accordi hanno effetti retroattivi reali, retroagendo al momento di apertura della successione, sia nei confronti delle parti che nei confronti dei terzi; e, secondo la dottrina sopra esposta, il legittimario reintegrato conseguirebbe il suo diritto per legge e non in forza di un atto traslativo; egli, pertanto, è un avente causa non del beneficiario della diposizione lesiva, bensì, iure succesionis, del de cuius.

Deve darsi conto di altra dottrina che ritiene, invece, tali accordi sempre produttivi di effetti modificativi della realtà giuridica dipendenti dalla volontà delle parti e non già dalla autorità della legge. Tale ultima dottrina, basa il proprio ragionamento anche sulla considerazione che qualora le parti volessero riconoscere al legittimario leso, non tutti i diritti successori a lui riservati dalla legge, bensì solo parte di essi, non sarebbe possibile sostenere che l’effetto dipenderebbe non dalla legge, bensì dalla volontà dei soggetti stessi: sarebbe il negozio concluso il titolo di tali effetti.

Ciò è sicuramente vero, ma non vale a far cadere le affermazioni dell’opposta dottrina, poiché l’ipotesi esaminata non sarebbe configurabile come accordo di reintegrazione di legittima in senso stretto, ma come negozio di natura, probabilmente, transattiva. Solo ove fossero riconosciuti tutti i diritti spettanti al legittimario leso sarebbe configurabile un vero e proprio accordo di reintegrazione di legittima con le conseguenti agevolazioni di natura fiscale.

Sarebbe, quindi, possibile distinguere all’interno di tali accordi, quelli aventi natura dispositiva da quelli aventi natura di mero accertamento.

Deve, poi, darsi conto della posizione di parte della dottrina che ritiene possibile giungere al medesimo risultato anche attraverso un negozio unilaterale recettizio, prescindendosi, quindi dall’espressione di un consenso bilaterale. Sarebbe sufficiente una manifestazione di volontà da parte del beneficiario della disposizione lesiva, con la quale venisse offerta la reintegrazione della corrispondente quota di legittima, mediante il rilascio dei beni di cui il de cuius aveva disposto in proprio favore.

Ancora, vi è chi ritiene che la finalità satisfattiva cui i mirano tali accordi, potrebbe essere realizzata mediante i più diversi strumenti giuridici quali la datio in solutum o la compensazione o ancora mediante l’apposizione, ad un contratto, di una clausola a favore di terzo.

Fonte: Matteo Ramponi in Euroconference Legale edizione del 14.2.2017

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